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167 Gang: le Note Stonate di una Generazione Stonata

  • Immagine del redattore: ventisette.info
    ventisette.info
  • 21 ott
  • Tempo di lettura: 3 min

Cosa succede quando il rap di periferia, le armi da guerra e il business della droga si fondono in un’unica, surreale sinfonia? Succede che a Malnate, provincia di Varese, scoppia una bomba – non di quelle nei testi dei trapper, ma una vera, giudiziaria – e viene giù il sipario su uno spettacolo che definire grottesco è fargli un complimento.


167 Gang: le Note Stonate di una Generazione Stonata

Protagonisti: la 167 Gang, nome che già promette male, come quei quartieri costruiti in fretta e abbandonati in fretta. Frontman: Mattia Oliverio, giovane, tatuato, seguito da stormi di ragazzini che credono che un kalashnikov sia uno status symbol. Accanto a lui, Maicol Traetta, reduce da una vecchia vicenda di cronaca nera (perché, si sa, la fedina penale oggi è il nuovo curriculum vitae).


Ma andiamo con ordine. Tutto inizia con un classico dei nostri tempi: spaccio nei boschi. Un arresto tira l’altro, e sotto la superficie di “qualche canna tra amici” spunta un giro industriale di hashish, cocaina e fucili a pompa. Roba seria, mica le cartine mentolate del tabaccaio.


L’indagine “Note Stonate” – che ha il merito almeno di avere un titolo onesto – ha svelato il retroscena: il gruppo musicale non era solo una band, ma un centro operativo multifunzionale. Produzione musicale fuori tempo, distribuzione capillare di stupefacenti, armi da guerra come accessori scenici. Altro che Spotify: il vero business era nei boschi.


Perché oggi, pare, essere musicista non basta. Bisogna anche essere imprenditore, influencer e, perché no, trafficante d’armi. Si chiamava “scena musicale”, ora è solo una sceneggiata criminale.


Una generazione che scambia le manette per medaglie

È curioso – ma fino a un certo punto – che questi personaggi siano idoli tra i giovanissimi. Ragazzini con l’iPhone in mano, cresciuti a suon di “fuori i soldi o ti sparo”, convinti che la galera sia il vero battesimo del successo. Nelle loro canzoni si spara, si sniffa, si “comanda la piazza”. Poi scopri che era tutto vero.


E lo Stato? Insegue, indaga, arresta. Ma non si può fare finta che questo fenomeno sia nato ieri. No, nasce da anni di tolleranza pelosa, di sociologia d’accatto e di quella retorica che trasforma ogni criminale in “figlio del disagio”. Certo, perché se cresci a Malnate ti è vietato avere una vita normale. Meglio diventare un gangster wannabe.


“Inclusione”, “arte”, “periferie”: il triplete dell’alibi

E adesso che le manette scattano e i fucili finiscono in questura, parte la solita recita: “ma erano solo artisti”, “bisogna capire il contesto”, “serve più educazione musicale nelle scuole”. Certo. Magari col bonus cultura puoi pure comprarti una Glock.


Intanto, mentre certi quartieri diventano set cinematografici per videoclip da milioni di visualizzazioni, tra cataste di banconote finte e pistole vere, a pagare davvero sono sempre gli stessi: i cittadini normali. Quelli che vanno a lavorare, crescono figli, e vedono i boschi diventare bazar dello spaccio a cielo aperto, difesi a colpi di kalashnikov.


Ma l’importante è non essere “repressivi”, giusto?

Alla fine, ci toccherà pure leggere che la 167 Gang era “una forma di resistenza urbana”. Il problema, evidentemente, non sono solo loro. Il problema è una certa cultura – politicamente corretta fino al midollo – che giustifica tutto in nome della libertà d’espressione, ma si dimentica che la libertà si accompagna sempre alla responsabilità. E alla legge.


Non è questione di musica. È questione di civiltà. E se la trap deve essere il sottofondo di una società che accetta tutto, allora forse è meglio togliere le cuffie.

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