Benvenuti a Saronno, zona Retrostazione: dove la civiltà va a morire (in silenzio)
- ventisette.info

- 8 ott
- Tempo di lettura: 2 min
Ah, la dolce vita in provincia. Il profumo dei tigli in fiore, il cinguettio dei merli, il vetro rotto sotto le suole, i resti di kebab fermentati al sole e il brivido di non sapere se quel tizio all’angolo sta dormendo… o semplicemente aspettando il suo turno per spacciare. Siamo a Saronno, non a Caracas. Anche se a tratti il confine pare sfumato.

Benvenuti nel quartiere Retrostazione, la parte non instagrammabile della città. Non che il resto sia Disneyland, ma qui si respira proprio quell’atmosfera da zona franca, dove regna una nuova legge naturale: quella dell’“ognuno fa quel che vuole, tanto chi vuoi che controlli?”.
Il paesaggio urbano: tra post-apocalisse e bivacco permanente
Via Gaudenzio Ferrari e piazza Tranquillo Zerbi. “Tranquillo”, dice il nome. Ironia involontaria? Forse. Perché tranquillo, qui, non è nemmeno il gatto del quartiere.
Una residente esasperata ha deciso di alzare la voce, allegando foto di ciò che vede ogni giorno: rifiuti, cartoni, bottiglie, sporcizia varia ed eventuale. Il tutto incorniciato da un sottofondo serale fatto di urla, bottiglie che volano, risse, forze dell’ordine in loop e traffici più o meno illeciti. Praticamente, una serie Netflix a basso budget girata dal vivo sotto casa tua.
Ma tranquilli, ci sono anche momenti “green”: alcuni residenti, armati di guanti e sacchi, hanno deciso di improvvisarsi netturbini per ripulire dopo le notti brave degli ospiti indesiderati. Perché chi ha ancora un briciolo di amor proprio, alla fine, lo fa da sé. D’altra parte, è risaputo che certe istituzioni oggi abbiano altre priorità: inclusività, dialogo e panchine colorate.
La retorica del “ci stiamo lavorando”
Ovviamente, la comunità del quartiere ha fatto il suo dovere: segnalazioni, lettere, appelli. Anche alla sindaca, che pare abbia risposto con l’eterno mantra istituzionale: “Siamo al corrente, stiamo lavorando per un controllo più incisivo”. Traduzione simultanea: non succederà niente di concreto a breve.
Nel frattempo, nella “zona rossa” che nessuno osa chiamare così (perché fa brutto), si ritrovano documenti sparsi, borse rubate, trolley abbandonati. Nessuno si chiede come mai. Nessuno osa dare un nome al problema. Troppo rischioso, troppo divisivo, troppo… politicamente scorretto.
Ma il problema siamo noi
Sì, perché il vero problema non è il degrado, non è lo spaccio, non è la percezione di insicurezza che ormai è diventata realtà. No. Il problema, casomai, sono quei cittadini che osano lamentarsi. Che pretendono decoro. Che si indignano. Che fanno notare che forse questa non è più la città di una volta.
Eppure, tra i condomini e i negozi di Retrostazione, vivono famiglie. Lavoratori. Anziani. Bambini. Gente che ha pagato (profumatamente) per abitare in un quartiere che adesso sembra una zona dimenticata, dove il senso civico ha fatto le valigie da tempo. Ma guai a dirlo ad alta voce: si rischia di “stigmatizzare”.
Il silenzio vale più di mille ordinanze
La verità è semplice e, come spesso accade, fastidiosa: non si vuole guardare in faccia la realtà perché significherebbe ammettere che qualcosa – anzi, molto – è sfuggito di mano. Che la sicurezza urbana non si costruisce con le chiacchiere da convegno, ma con il rispetto delle regole. Con la presenza, non con le promesse. E soprattutto, con il coraggio di chiamare le cose col loro nome.
Nel frattempo, Retrostazione va avanti. Invisibile agli occhi delle istituzioni, ma fin troppo visibile a chi ci vive.




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